La crescente frammentazione internazionale delle catene del valore rende ingannevoli le tradizionali statistiche commerciali basate sui valori lordi. In particolare, la bilancia commerciale degli Stati Uniti e i disavanzi bilaterali (ad esempio con la Cina) appaiono profondamente distorti quando non si considerano gli scambi intra-gruppo delle multinazionali. Gran parte del commercio mondiale avviene all’interno di grandi imprese globali o lungo filiere controllate da esse; si stima infatti che circa l’80% del commercio globale sia collegato a catene del valore guidate da multinazionali. In questo contesto, Apple Inc. rappresenta un caso emblematico: pur essendo un’azienda statunitense, progetta i suoi prodotti negli USA ma li assembla all’estero, orchestrando una rete globale di affiliate e fornitori. Di conseguenza, i flussi commerciali ufficiali associati ai prodotti Apple (come l’iPhone) possono dare un’immagine fuorviante dei veri benefici economici, generando disavanzi bilaterali “gonfiati” nelle statistiche tradizionali. Questo report tecnico analizza l’impatto di tali dinamiche sulla bilancia commerciale statunitense (come esempio della complessità degli scambi globali) focalizzandosi sul caso Apple, e quantifica le distorsioni introdotte dal commercio intra-firm rispetto al commercio in valore aggiunto.
La catena globale del valore di Apple: produzione, progettazione e distribuzione
Apple ha costruito una catena del valore globale in cui le fasi ad alto valore aggiunto rimangono negli Stati Uniti, mentre la produzione fisica è delocalizzata. La progettazione e lo sviluppo dei prodotti (hardware e software) avvengono principalmente a Cupertino, in California, sede centrale di Apple. Qui risiede la proprietà intellettuale – dal design industriale all’ingegneria del processore e del sistema operativo iOS – che costituisce il cuore innovativo dei suoi dispositivi. La produzione e l’assemblaggio dei prodotti Apple, invece, sono esternalizzati a partner esteri: l’iPhone, ad esempio, viene fabbricato per conto di Apple principalmente da Foxconn (Hon Hai Precision) in Cina . Foxconn svolge l’assemblaggio finale in giganteschi stabilimenti cinesi, integrando componenti ad alta tecnologia provenienti da diversi Paesi: processori e memorie spesso di origine taiwanese o sudcoreana, schermi prodotti in Giappone o Corea, e così via. In altri termini, Apple “sgancia” le funzioni tangibili da quelle intangibili: controlla internamente le attività a monte (R&S, design) e a valle (marketing, distribuzione), lasciando la manifattura (la fase intermedia della catena) a produttori terzi.
Dal lato della distribuzione e vendita, Apple opera tramite proprie affiliate estere e accordi contrattuali che massimizzano la cattura di valore negli USA. Un elemento cruciale è l’utilizzo di affiliate in paesi a fiscalità agevolata (come l’Irlanda) per gestire la vendita internazionale. Ad esempio, storicamente Apple ha impiegato la controllata Apple Sales International (ASI), con sede in Irlanda, per acquistare dagli assemblatori i prodotti finiti e rivenderli nei vari mercati esteri. Questo meccanismo fa sì che molti iPhone fisicamente assemblati in Cina vengano prima “venduti” sulla carta all’affiliata irlandese di Apple (operando in una zona franca in Cina) e solo successivamente distribuiti nei mercati finali, come la stessa Cina continentale. Il risultato contabile è che il bene assemblato in Cina risulta esportato verso l’Irlanda (affiliata Apple) e poi re-importato in Cina come prodotto irlandese, con un forte ricarico di prezzo applicato da Apple in Irlanda. In parallelo, l’affiliata irlandese ottiene i diritti di vendita esclusivi fuori dalle Americhe in cambio di pagamenti verso la casa madre negli USA sotto forma di servizi (ad es. partecipazione ai costi di R&S). Questi flussi intra-gruppo emergono parzialmente nella bilancia dei pagamenti come esportazioni di servizi dagli USA (pagamenti per know-how, royalties o cost-sharing di R&D), ma una larga parte del valore generato da Apple all’estero non viene contabilizzata né come esportazione di beni né di servizi nelle statistiche commerciali statunitensi.
In sintesi, la struttura globale di Apple si basa su: (a) attività intangibili negli USA (software, progettazione, brevetti, marchio, controllo strategico); (b) produzione tangibile all’estero in stabilimenti di terzi (principalmente in Asia); (c)distribuzione internazionale tramite affiliate proprie, che consente ad Apple di allocare profitti dove conviene e di far apparire molti scambi come transazioni intra-societarie. Questa configurazione influenza direttamente le statistiche commerciali ufficiali: molti flussi di beni Apple tra paesi non coinvolgono una controparte “esterna” statunitense, ma avvengono tra filiali di Apple o tra fornitori esteri e filiali Apple, sfuggendo così alla tradizionale rilevazione delle esportazioni USA.
Commercio lordo vs commercio in valore aggiunto: effetti sulle statistiche
Le modalità operative di Apple illustrano un caso generale di come il commercio internazionale tradizionale (lordo )possa differire dal commercio in valore aggiunto. Le statistiche convenzionali registrano il valore totale dei beni che attraversano la dogana, attribuendo l’intero valore al paese esportatore finale. Nel caso dell’iPhone assemblato in Cina, ad esempio, ogni dispositivo spedito negli USA viene contabilizzato come export cinese pari all’intero valore del prodotto finito. In base ai dati di teardown (distinta base) per l’iPhone X, il costo di produzione è circa 409 dollari, di cui però solo 104 (circa il 25%) costituiscono effettivo valore aggiunto cinese; il resto deriva da componenti importate da Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti ed altri paesi. Tuttavia, secondo il sistema attuale, l’iPhone X che esce dalla Cina viene contato per l’intero valore di 409 $, contribuendo ad aumentare il deficit bilaterale USA-Cina di circa 332 $ per unità (il prezzo di produzione meno i componenti USA). In realtà, gran parte di quel valore non appartiene alla Cina: in termini di valore aggiunto effettivo, l’iPhone X importato negli USA genera un disavanzo verso la Cina di soli 104 $ – meno di un terzo della cifra conteggiata su base lorda. Ciò significa che per ogni iPhone importato, le statistiche attuali sovrastimano di circa 228 $ il deficit bilaterale con la Cina attribuendole anche il contenuto estero incorporato. Su scala aggregata, uno studio ha stimato che nel 2018 il solo commercio di iPhone abbia esagerato il deficit USA-Cina di circa 9,65 miliardi di dollari (circa +2,3%) rispetto al valore in valore aggiunto.
Questo divario tra dati lordi e dati in valore aggiunto non riguarda solo Apple. In generale, diversi studi (Johnson e Noguera 2012; OCSE-WTO 2013; Koopman et al. 2014) mostrano che le misure tradizionali esagerano sensibilmente gli squilibri bilaterali. Ad esempio, il disavanzo USA-Cina risulta inferiore del 30–40% se misurato in termini di valore aggiunto (dati mid-2000), poiché una quota significativa del contenuto delle importazioni “cinesi” proviene in realtà da fornitori di terze economie. Secondo le stime OCSE TiVA, in media circa un terzo del valore delle esportazioni cinesi verso gli USA è costituito da valore estero (input importati). Pertanto, le statistiche lorde attribuiscono alla Cina anche il valore generato da paesi come Corea, Giappone, Taiwan o dagli stessi Stati Uniti (componenti inviati in Cina per l’assemblaggio). Il World Input-Output Database (WIOD) e gli indicatori di Trade in Value Added (TiVA) dell’OCSE-WTO confermano questa realtà, ridistribuendo i surplus e disavanzi bilaterali in modo più accurato lungo la filiera produttiva globale. Importante sottolineare che la misura del disavanzo totale USA verso il mondo non cambia passando dai dati lordi a quelli in valore aggiunto, ma cambia la sua ripartizione tra paesi partner. In particolare, il deficit con i paesi finali assemblatori (come la Cina) tende a ridursi, mentre aumentano i disavanzi verso i fornitori di componenti a monte (spesso economie avanzate o altri emergenti). Le tradizionali statistiche commerciali, focalizzandosi sui flussi lordi, dipingono dunque un quadro distorto dell’origine degli squilibri. Come nota un rapporto WTO, c’è il rischio che misure protezionistiche vengano indirizzate verso i paesi sbagliati, ossia quelli a fine catena (esportatori dell’ultimo bene) anziché quelli che effettivamente catturano gran parte del valore.
Nel caso di Apple, gli scambi intra-firm e la frammentazione globale fanno sì che i dati del commercio tradizionale sottostimino fortemente l’export effettivo americano di valore aggiunto. Quando Apple vende un iPhone all’estero per, diciamo, 500 dollari, solo una frazione minima di quel valore risulta come export USA nelle statistiche (tipicamente il valore di eventuali componenti fisiche provenienti dagli USA, ad esempio ~$10). Tutto il resto viene attribuito ad altri paesi: circa $170 come export cinese (pari al costo finale di assemblaggio e componenti asiatiche), e oltre $150 suddivisi fra i vari paesi fornitori di componentistica. Apple incassa circa $321 di pura valorizzazione intangibile (marca, tecnologia, margine commerciale) da ogni iPhone venduto all’estero, ma questa cifra non viene registrata come esportazione USA di beni né di servizi. Il fenomeno è noto come “missing exports”: valore aggiunto creato da imprese americane all’estero che sfugge alla contabilizzazione commerciale. Di fatto, come ha sottolineato Xing (2017), il sistema attuale registra solo il movimento fisico dei beni attraverso le frontiere, ignorando l’export di proprietà intellettuale incorporata in quei beni.
Impatto sulla bilancia commerciale USA e disavanzi bilaterali
Considerare il commercio in valore aggiunto e gli scambi intra-gruppo delle multinazionali porta a significative revisioni della bilancia commerciale USA. Includendo il valore aggiunto generato da Apple nei suoi prodotti venduti all’estero, le esportazioni effettive degli Stati Uniti risulterebbero molto più elevate e, corrispondentemente, il disavanzo commerciale totale più contenuto. Nel 2015, ad esempio, Apple ha realizzato vendite nette all’estero per circa 139,8 miliardi di dollari, quasi interamente prodotte fuori dagli USA e dunque non contabilizzate come export americano. Secondo una stima, circa 55,9 miliardi di dollaridi quel totale corrispondevano a valore aggiunto di proprietà intellettuale e design Apple. Se tale importo fosse stato registrato come esportazione di beni/servizi USA, le esportazioni statunitensi di quell’anno sarebbero risultate maggiori del 3,7% e il disavanzo commerciale complessivo inferiore del 7,5%. Un singolo gruppo multinazionale contribuirebbe quindi a ridurre significativamente lo sbilancio esterno degli Stati Uniti, evidenziando quanto sia fuorviante ignorare il ruolo delle imprese globali.
L’effetto diventa ancor più marcato su base bilaterale. La “passione” dei consumatori cinesi per i prodotti Apple ha fatto della Cina uno dei maggiori mercati esteri di Apple, con vendite per 58,7 miliardi $ nel 2015 nella Grande Cina (inclusi Hong Kong e Taiwan). Poiché tutti gli iPhone destinati a quei clienti vengono assemblati in Cina e spediti localmente (tramite l’Irlanda, come visto), agli occhi della dogana gli USA non esportano nulla verso la Cina quando un cittadino cinese compra un iPhone. Eppure Apple, impresa americana, realizza un valore aggiunto notevole su quelle vendite. Si stima che nel 2015 Apple abbia catturato circa 23,5 miliardi $ di valore aggiunto dalle vendite nella Grande Cina. Se questo fosse contato come export USA, le esportazioni statunitensi verso la Cina risulterebbero maggiori del 13,1% e il deficit bilaterale USA-Cina inferiore del 6,7%. Questa rettifica – vale la pena notare – deriva da una sola azienda (Apple); molte altre multinazionali USA operano in modo analogo, per cui considerare tutto il valore aggiunto generato dalle imprese USA in Cina renderebbe gli scambi USA-Cina molto più equilibrati di quanto indichino le statistiche correnti. Situazioni analoghe emergono con altri partner: ad esempio, nel 2015 Apple ha venduto in Giappone per 15,7 miliardi $, da cui ha ottenuto circa 6,3 miliardi $ di valore aggiunto – cifra pari a oltre il 10% delle esportazioni USA in Giappone registrate ufficialmente. Inclusa tale quota, il disavanzo USA-Giappone si ridurrebbe sensibilmente (di quasi 9% circa), attenuando l’apparente squilibrio bilaterale dovuto in gran parte alle auto giapponesi. In breve, la bilancia commerciale bilaterale degli USA verso molti paesi cambierebbe in modo evidente se si imputasse correttamente il valore in capo alle economie che lo generano. I casi Apple (e analogamente Nike, o altri brand “fabless”) mostrano che una quota importante dell’export reale americano è “nascosta” dentro beni fabbricati all’estero e non compare nelle statistiche, gonfiando i disavanzi con i paesi di assemblaggio finale.
Va anche rilevato che una parte consistente del commercio USA già avviene intra-gruppo (intrafirm trade) ed è rilevata come tale dalle statistiche: ad esempio, oltre il 30-40% degli scambi di servizi USA avviene tra imprese affiliate (dati BEA 2021). Nel caso dei beni, gli scambi intra-gruppo tendono a interessare maggiormente le importazioni dagli alleati (es. UE) e meno paesi come la Cina, dove le imprese USA spesso preferiscono terzisti indipendenti. Ciò nonostante, l’import USA di beni da proprie affiliate o da case madri estere rappresenta una quota significativa (20-30%) del totale. Questo implica che un ampio segmento del disavanzo USA riflette decisioni di localizzazione produttiva delle stesse imprese americane. Se, ipoteticamente, tutta la produzione offshore delle multinazionali USA avvenisse all’interno del paese, molte importazioni scomparirebbero dalle statistiche (convertendosi in produzione domestica) e i disavanzi bilaterali si ridimensionerebbero drasticamente. Naturalmente si tratta di un esercizio controfattuale: in pratica la delocalizzazione esiste per ragioni di costo ed efficienza, ma il punto cruciale è che il disavanzo commerciale non equivale a una perdita netta di valore per l’economia americana, dato che parte di quel disavanzo torna sotto forma di profitti, royalties e redditi da capitale alle imprese statunitensi.
Il valore aggiunto intangibile: Apple trattiene la ricchezza negli Stati Uniti
Nonostante l’esternalizzazione produttiva, il grosso del valore generato dai prodotti Apple resta legato agli Stati Uniti sotto forma di redditività del capitale intellettuale. Apple è un esempio lampante di come, nelle moderne catene globali, il valore si concentri negli asset intangibili: progettazione, software, marchio, ecosistema di servizi, organizzazione aziendale e controllo strategico. Secondo dati OCSE, mediamente oltre un quarto del valore aggiunto nelle filiere manifatturiere dei paesi avanzati è ascrivibile al capitale intangibile, una quota spesso superiore al contributo del capitale tangibile tradizionale (macchinari, fabbriche). Apple incarna questa tendenza: ad esempio, su un iPhone dal prezzo al dettaglio di circa 1000 dollari, solo una frazione modesta remunera il lavoro e le attività manifatturiere in Cina (poche decine di dollari), mentre una quota ampia del prezzo finale remunera gli intangiblescreati negli USA (si pensi al sistema operativo, all’interfaccia utente, all’innovazione tecnologica, al design iconico, nonché al valore del brand Apple).
Come evidenziato in studi di caso, la contribuzione di Apple alla catena del valore dell’iPhone proviene quasi interamente da beni intangibili e si materializza in reddito per l’azienda al momento della vendita finale. Apple, in quanto titolare del marchio e sviluppatore del prodotto, cattura il margine commerciale sia all’ingrosso che al dettaglio (quando vende tramite i propri Apple Store), ovvero ciò che resta dopo aver remunerato tutti i fornitori e assemblatori. Di conseguenza, pur non esportando fisicamente i beni, Apple “rimpatria” valore attraverso i profitti generati all’estero. Nel 2017, ad esempio, l’affiliata irlandese di Apple (ASI) ha trasferito alla casa madre statunitense circa 6 miliardi di dollari sotto forma di pagamenti di servizi legati al cost-sharing di R&S – un importo che compare come voce attiva per gli USA (esportazione di servizi) in bilancia dei pagamenti. Questo è solo un parziale riflesso del guadagno effettivo: la maggior parte degli utili delle vendite estere Apple rimaneva nelle controllate (spesso in paradisi fiscali) in attesa di rimpatrio. Dopo le riforme fiscali del 2017, Apple ha infatti rimpatriato centinaia di miliardi di utili accumulati all’estero, confermando che il valore creato lungo la filiera ritorna infine agli azionisti e all’economia USA (sotto forma di dividendi, buyback, investimenti in R&D domestica, ecc.). In termini di contabilità del valore aggiunto, quindi, gli Stati Uniti trattengono gran parte del valore generato da Apple: gli stipendi degli ingegneri, designer e sviluppatori software sono reddito interno, così come i profitti netti dell’azienda (al netto delle tasse pagate all’estero).
Si può affermare che Apple contribuisce alla bilancia dei pagamenti USA più attraverso il conto redditi (profitti, licenze, servizi) che non attraverso il mero conto merci. Questo è un fenomeno comune nell’economia moderna: molte imprese “fabless” americane (semiconduttori, abbigliamento sportivo, elettronica di consumo) concentrano sul suolo nazionale la fase creativa e di coordinamento, raccogliendo i frutti economici delle vendite mondiali pur lasciando ad altri Paesi la manifattura. Il paradosso apparente di un disavanzo commerciale elevato ma con profitti record per le multinazionali USA indica che una buona parte del valore dei beni importati è in realtà valore “made in USA” sotto mentite spoglie. Nel caso di Apple, la proprietà intellettuale e il know-how sviluppati negli Stati Uniti rappresentano il capitale che genera valore ovunque gli iPhone siano venduti; anche se la catena produttiva è globalizzata, il centro di gravità economico resta negli Stati Uniti.
La retorica protezionista di Trump e la realtà delle catene globali del valore
L’analisi sopra esposta permette di valutare con occhio critico la retorica protezionista adottata da Donald Trump negli ultimi anni. Trump ha spesso denunciato il massiccio deficit commerciale USA (soprattutto verso la Cina) come prova di una presunta “sconfitta” economica, imputando la colpa al libero scambio e alle delocalizzazioni delle imprese americane. In particolare, il neo Presidente ha citato Apple e altri colossi tecnologici come esempi di aziende che “dovrebbero riportare la produzione in patria”, minacciando dazi punitivi sugli iPhone prodotti in Cina. Nel 2018-2019 la sua amministrazione ha effettivamente imposto tariffe aggiuntive fino al 25% su centinaia di miliardi di import di origine cinese, motivandole con la necessità di riequilibrare i conti (“fair trade”). Allo stesso tempo, Trump ha accusato la Cina di manipolare il cambio per compensare i dazi . Questa narrativa si basa però su un’interpretazione semplicistica dei dati commerciali lordi, che – come visto – esagerano il disavanzo USA-Cina fino al 40% rispetto alla realtà in valore aggiunto.
Gli economisti concordano sul fatto che i tradizionali dati doganali sovrastimano l’entità dello squilibrio bilaterale con la Cina. Prodotti come l’iPhone dimostrano chiaramente come gran parte del “deficit” verso la Cina sia in realtà imputabile a input provenienti da altri paesi o a valore aggiunto generato da imprese USA stesse. In altre parole, la Cina agisce in molti casi da hub di assemblaggio all’interno di catene del valore gestite da aziende occidentali (Apple, Nike, Dell, ecc.), ottenendo solo una piccola porzione del valore finale. Le misure protezionistiche di Trump rischiano quindi di colpire un bersaglio sbagliato: tassare pesantemente l’iPhone “Made in China” equivale a tassare indirettamente un prodotto di un’azienda americana, il cui valore aggiunto arricchisce in buona parte gli Stati Uniti e altri fornitori non cinesi. Alcune analisi hanno sottolineato che se Apple spostasse l’assemblaggio dalla Cina ad un altro paese (come India o Vietnam), il deficit con la Cina si ridurrebbe ma aumenterebbe quello con il nuovo paese assemblatore, lasciando quasi invariato il deficit complessivo e i posti di lavoro USA disponibili per la manifattura di massa. Allo stesso modo, l’idea che rivalutando lo yuan si correggerebbe il deficit è illusoria: con un contenuto di valore estero così alto nelle esportazioni cinesi, anche una forte variazione di cambio sarebbe insufficiente a compensare i dazi.
La retorica “make it in America” semplifica un problema complesso. Produrre un iPhone interamente negli Stati Uniti sarebbe tecnicamente possibile ma ad un costo decisamente superiore, data la perdita di economie di scala e competenze specializzate sviluppate nei distretti asiatici. Studi ipotizzano che il prezzo di un iPhone assemblato in USA aumenterebbe sensibilmente (decine di dollari in più per unità) senza generare un valore aggiunto comparabile, dato che la parte pregiata del prodotto – innovazione e brand – è già domestica. L’occupazione manifatturiera recuperata sarebbe limitata a lavorazioni di basso valore, mentre si metterebbero a rischio intere filiere globali costruite in decenni. In definitiva, le critiche di Trump al libero commercio appaiono incoerenti con l’evidenza economica: il disavanzo commerciale va interpretato alla luce delle catene del valore globali. Politiche protezionistiche basate su dati lordi possono essere fuorvianti, poiché non riconoscono che una parte del “deficit” commerciale finanzia in realtà profitti, salari qualificati e rendite negli Stati Uniti stessi (attraverso le multinazionali come Apple). Intervenire con dazi generalizzati rischia di danneggiare i consumatori americani (prezzi più alti) e di spostare le catene produttive verso altri paesi a basso costo senza effetti benefici sulla manifattura domestica, come suggerito dai modelli di equilibrio generale e dall’esperienza recente.
Conclusioni
La disamina del caso Apple e degli scambi intra-firm rivela come le statistiche commerciali convenzionali forniscano un’immagine distorta della bilancia commerciale statunitense. Quando si tiene conto del commercio in valore aggiunto e delle complesse transazioni all’interno delle multinazionali, il disavanzo commerciale USA risulta inferiore e distribuito diversamente tra i partner esteri. Apple, progettando negli USA ma producendo offshore, fa apparire nelle dogane enormi importazioni dai paesi di assemblaggio; tuttavia, gran parte di quel valore economico è generato e trattenuto negli Stati Uniti sotto forma di capitale intellettuale e profitto aziendale. Le stime basate su dati OCSE TiVA, WIOD e studi accademici indicano che il deficit bilaterale USA-Cina è gonfiato artificialmente (anche di un terzo o più) dalle catene globali del valore. Correggendo queste distorsioni – ad esempio attribuendo agli USA l’export “nascosto” di idee, design e software – si ridimensionano le narrative di perdita assoluta per l’economia americana.
Inoltre, la presenza di estesi scambi intra-gruppo (tra case madri USA e affiliate estere, o viceversa) sottolinea come il commercio estero non sia sempre uno scambio tra entità economiche indipendenti: spesso è commercio intra-impresa, mosso da logiche di ottimizzazione globale. Ignorare questo aspetto può portare a diagnosi sbagliate e a ricette protezionistiche controproducenti. La retorica protezionista di Donald Trump, focalizzata sui disavanzi bilaterali e sul rimpatrio manifatturiero, non trova pieno riscontro nei dati in valore aggiunto. Anzi, interventi come i dazi sui beni di consumo assemblati all’estero finiscono per colpire sia i partner commerciali che le stesse imprese statunitensi leader nelle filiere globali.
La lezione che emerge è la seguente: nell’era delle catene globali del valore, il successo di un’economia non si misura solo dal saldo commerciale lordo. Bisogna guardare a dove viene creato il valore aggiunto e chi ne beneficia effettivamente. Per gli Stati Uniti, ciò significa riconoscere che una porzione significativa del valore dei beni importati è “made in USA” in termini di idee e capitale, e che politiche per la competitività dovrebbero semmai puntare a rafforzare questi vantaggi (innovazione, competenze, proprietà intellettuale) piuttosto che al semplice ritorno di fabbriche. Apple dimostra come il valore di un iPhone risieda molto più nel cervello che nelle mani che lo assemblano: le statistiche e le politiche commerciali devono dunque aggiornarsi per riflettere questa realtà, fornendo un quadro più neutrale e veritiero dei rapporti economici internazionali.
Fonti
Analisi basata su dati OCSE TiVA, WIOD, BEA e studi accademici (Xing e Detert 2010; Johnson e Noguera 2012; OECD-WTO 2013; Koopman et al. 2014; Xing 2017, 2019), nonché documentazione del IMF e indagini del Congresso USA. Le evidenze supportano un approccio al commercio estero fondato sul valore aggiunto e mettono in dubbio la narrativa semplicistica dei disavanzi come indice di “cattivo affare” per gli Stati Uniti. In definitiva, una comprensione più approfondita degli scambi intra-firm e delle catene globali del valore contribuisce a politiche commerciali più coerenti ed efficaci, al riparo da facili slogan protezionistici.
Global value chains and the US missing exports | CEPR
Apple’s Exports Aren’t Missing: They Are in Ireland | Council on Foreign Relations
How the iPhone widens the US trade deficit with China: The case of the iPhone X | CEPR