Crescere oltre i confini nazionali è per molte imprese – in particolare PMI – un passaggio decisivo per aumentare il fatturato e la competitività di lungo periodo. L’internazionalizzazione consente di accedere a mercati più ampi, diversificare i rischi paese, sfruttare economie di scala e avvicinarsi a fonti di approvvigionamento e talenti globali. Nell’Unione Europea, ad esempio, si stima che 56 milioni di posti di lavoro dipendano dagli scambi intra-europei e altri 38 milioni dalle esportazioni verso Paesi extra-UE – numeri che evidenziano quanto le attività oltre confine siano diventate importanti per la crescita economica e l’occupazione. Tuttavia, espandersi all’estero comporta sfide significative: differenze culturali e normative, competizione con attori locali radicati, complessità logistiche e di supply chain. Per affrontare con successo il percorso di internazionalizzazione, le imprese devono pianificare con cura le strategie di ingresso nei mercati target e sviluppare vantaggi competitivi adattabili su scala globale.
Un punto di partenza fondamentale è valutare se l’impresa possiede un chiaro vantaggio competitivo esportabile. Una ricerca di McKinsey – che ha analizzato i percorsi di crescita di migliaia di aziende – evidenzia che le imprese ottengono i migliori risultati all’estero solo quando hanno prima consolidato una posizione di leadership o solidità nel mercato domestico. In altri termini, “andare globale conviene se puoi battere i concorrenti locali” nei mercati di destinazione. Ciò implica disporre di fattori distintivi trasferibili: ad esempio un prodotto superiore o innovativo che mantiene la sua attrattiva anche all’estero, un marchio forte e riconoscibile internazionalmente, oppure competenze operative (efficienza produttiva, supply chain ottimizzata) che offrano un vantaggio di costo replicabile altrove. Se tali elementi mancano, il rischio è di trovarsi semplicemente a competere testa a testa con attori locali ben radicati, ma su un terreno per l’azienda nuovo e meno conosciuto – una ricetta che spesso porta al fallimento dell’espansione. Non sorprende quindi che metà della crescita delle grandi società nell’ultimo decennio sia derivata dai mercati esteri, ma i benefici concreti in termini di performance sono stati appannaggio soprattutto di quelle imprese che erano già in buona salute sul mercato domestico. Queste “campionesse nazionali” hanno generato un incremento di valore doppio rispetto a chi si internazionalizzava senza solide basi interne.
Definito il se e il perché internazionalizzarsi, occorre scegliere con oculatezza il dove e il come. La selezione dei mercati target va oltre le dimensioni e la crescita economica: va considerata l’affinità di quei mercati col proprio prodotto/servizio, l’esistenza di una domanda effettiva e il contesto competitivo. Strumenti come le analisi di mercato, studi di settore e missioni esplorative sono essenziali. Un errore comune è lasciarsi sedurre da mercati giganteschi (Cina, USA, India) senza valutare barriere d’ingresso, normative, canali distributivi e preferenze locali. Spesso può essere più efficace iniziare da mercati “più facili” o affini culturalmente/regolatoriamente (ad esempio, per un’azienda italiana, altri Paesi UE vicini) per poi allargare il raggio d’azione. In questo senso, i dati indicano che circa metà delle PMI europee aveva già rapporti internazionali all’interno del mercato unico tra il 2012 e il 2015 – segno che il passo iniziale avviene spesso in ambito comunitario prima di approdare oltreoceano.
Quanto alle modalità di ingresso, le opzioni spaziano dall’esportazione indiretta (affidandosi a intermediari locali) fino alla presenza diretta con filiali produttive o commerciali proprie. Nel mezzo vi sono forme come joint-venture con partner esteri, accordi di distribuzione, franchising o licensing del proprio brand/tecnologia. La scelta dipende dalle risorse dell’azienda, dalla necessità di controllo e dalla natura del business. Ad esempio, un produttore di beni di consumo forte su un brand potrebbe optare per accordi di distribuzione o franchising nei nuovi mercati, sfruttando partner locali per vendere i propri prodotti, mentre un’azienda manifatturiera che punta a ridurre costi e servire meglio mercati lontani potrebbe decidere di aprire un impianto in loco o acquisire un player locale. Ciascuna opzione presenta pro e contro: una partnership locale può dare accesso immediato a competenze e reti nel Paese target, ma comporta dipendenza da terzi e possibili conflitti di interesse; l’insediamento diretto offre controllo e potenzialmente margini più alti, ma richiede investimenti significativi e sopportazione di rischi politici e di mercato. Molte aziende adottano approcci graduali, iniziando con export indiretti o uffici commerciali snelli e poi, verificato il potenziale, investendo in presenza produttiva.
Un elemento critico è l’adattamento al mercato locale. Un errore classico è supporre che una formula vincente in patria lo sarà invariabilmente ovunque: spesso occorre localizzare il prodotto (ad esempio modificando gusti, taglie, confezioni per incontrare preferenze culturali), il marketing (lingua, immagini, canali pubblicitari), persino il modello di pricing e servizio. Le aziende che “pensano globale ma agiscono locale” tendono a prosperare di più. Secondo dati McKinsey, le aziende che personalizzano la propria offerta alle specificità dei mercati target registrano tassi di crescita dei ricavi fino al 15% superiori rispetto a quelle che mantengono un approccio standardizzato. Ciò non significa snaturare il proprio core business, bensì modularlo: ad esempio, un produttore di alimenti potrà mantenere la qualità e il marchio, ma adattare i propri gusti alle cucine locali; un’azienda di software dovrà tradurre e localizzare l’interfaccia e assicurarsi che il prodotto rispetti normative fiscali o standard tecnici del Paese d’importazione. L’importanza della localizzazione si estende anche alla comunicazione: il 75% dei consumatori globali dichiara di preferire acquistare prodotti con informazioni nella propria lingua. Pertanto investire in traduzioni professionali, customer care locale e campagne marketing su media locali può fare la differenza nell’accoglienza del brand. Tali adattamenti richiedono spesso di affidarsi a risorse locali (assunzione di manager o consulenti nel mercato target) che comprendano davvero la cultura e i comportamenti dei clienti del luogo. Questo fa parte del costruire quella che viene definita una “presenza glocale”: l’azienda resta fedele a sé stessa ma si integra nel tessuto di ciascun mercato.
Un altro fattore di successo è la costruzione di una rete di relazioni efficace all’estero. Il networking e l’alleanza con partner locali (fornitori, distributori, consulenti, istituzioni) fungono da moltiplicatore. Studi europei mostrano che le PMI supportate da reti e consorzi per l’export hanno probabilità significativamente maggiori di riuscire ad esportare stabilmente. In molti Paesi esistono agenzie governative o camere di commercio che offrono supporto (dati di mercato, contatti, fiere internazionali) per facilitare l’ingresso delle aziende nazionali all’estero. Saperne approfittare riduce la curva di apprendimento. Ad esempio, partecipare a fiere internazionali o missioni B2B organizzate può far incontrare in pochi giorni potenziali clienti o distributori che autonomamente richiederebbero mesi di ricerca. Anche utilizzare piattaforme digitali B2B globali o marketplace online (per prodotti di consumo) è oggi una via sempre più praticata per sondare nuovi mercati a costi relativamente contenuti.
Naturalmente, l’internazionalizzazione comporta anche rischi intrinseci. Le variabili macroeconomiche e geopolitiche sono fuori dal controllo dell’impresa: cambi sfavorevoli, dazi e barriere commerciali nuovi, instabilità politiche possono improvvisamente complicare operazioni prima redditizie. Ad esempio, imprese europee con forte presenza in mercati emergenti hanno subito contraccolpi durante fasi di crisi valutarie o tensioni internazionali. Per questo, è essenziale monitorare costantemente l’evoluzione dei contesti e, per aziende più grandi, diversificare geograficamente la presenza per non essere eccessivamente esposti su un singolo Paese. Un altro rischio è sottovalutare i costi nascosti: costi di compliance normativa (ogni paese ha regole fiscali, di lavoro, standard tecnici differenti che richiedono adempimenti), costi logistici (spedizioni, dogane) e costi manageriali (il coordinamento a distanza, i viaggi frequenti, etc.). Spesso la redditività sui mercati esteri all’inizio è inferiore al mercato domestico proprio per queste voci, e l’azienda deve poter sostenere un periodo di investimenti prima di vedere ritorni. Un indicatore di successo è la capacità di localizzare anche la gestione operativa: la presenza di manager locali competenti può abbassare notevolmente questi costi e aumentare l’agilità sul territorio.
In conclusione, espandersi sui mercati esteri è un percorso sfidante ma ricco di opportunità. Studi empirici indicano che le imprese internazionalizzate tendono ad avere tassi di crescita e produttività superiori, e ad essere più innovative, grazie all’esposizione a idee e concorrenti globali. Non a caso, in Italia e in Europa, le aziende esportatrici (anche piccole) rappresentano una quota sproporzionata di valore aggiunto e crescita rispetto al loro numero totale. La ricetta del successo comprende diversi ingredienti: un vantaggio competitivo solido, una preparazione meticolosa del mercato target, una notevole capacità di adattamento e ascolto delle esigenze locali, un team dedicato e competente, e un impegno costante (l’internazionalizzazione non è un progetto una tantum, ma un processo continuo). Con queste basi, un’idea imprenditoriale può trovare spazio e prosperare ben oltre i confini di origine. In un mondo dove i flussi commerciali e le catene del valore sono sempre più integrate, “andare oltre” il proprio mercato domestico non è solo un’opportunità di espansione – spesso diventa una condizione necessaria per la sopravvivenza e il successo di lungo termine.
Fonti
[PDF] Special Report No 07/2022: SME internationalisation instruments
The growth code: Go global if you can beat local
SME internationalisation beyond the EU - European Commission
Unleash The Power Of Localization: The How-To | Entrepreneur